Un figlio accompagna la propria madre morente in un ultimo viaggio. Nella natura nella quale è persa la casa di famiglia, nella campagna della primavera russa che accosta alle ultime folate del lungo inverno i primi rami dei meli in fiore.Poema elegiaco. Che sembra alitare dell'infinita dolcezza e tenerezza di quei gesti tra madre e figlio. Che sembra nutrirsi di quel medesimo alitare di una natura catturata, assorbita fino al più profondo dei suoi elementi vitali. In uno straordinario, mai disperato, tentativo di rigenerazione,
Che importa, nei confronti di tanta delicatezza, dirsi che il regista si è ispirato alla pittura del tedesco Caspar David Friedrich, che le ottiche a cortissima focale deformano appena la realtà osservata come in un grido soffocato di un altro pittore, Edward Munch; o che la sovrapposizione di filtri colorati, forse di tecniche numeriche, immerge il tutto in un soffuso pastello sovrannaturale?
Lo straordinario di questo regista che mi ricevette due anni fa in uno studiolo sovraccarico del fatiscente Leninfilm a San Pietroburgo è di accingersi a guardare il mondo quando gli altri sembrano esitare. E soffermarsi, incurante di quelle leggi che il mondo dell'estetica o, peggio, dello spettacolo, si è creato per decidere quanto sia lecito attendere la nascita della poesia. Quanto debba durare la descrizione di una sensazione.
Il cinema di Tarkovski ha certamente lasciato le sue tracce più preziose in quello di Sokurov: ma in questo dilatare il tempo, analizzare la materia, indagare l'indicibile sul filo della luce, dell'aria, dell'immateriale c'è tutto lo splendore di una dimensione filosofica che il mondo del cinema dovrebbe attardarsi - finalmente - a scoprire.